L'ASCESO |
di |
GIANLUCA MARCHESELLI |
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Nonostante siano stati l’oggetto di studio di ogni mago,
prete e filosofo, la verità è che sappiamo ben poco degli Ascesi. Di certo,
sappiamo che la fase dell’ascensione corrisponde per gli Dei all’infanzia degli
uomini. Ugualmente, sappiamo che tale fase è estremamente pericolosa, al
contrario di ogni altra razza, gli Dei sono infatti tutt’altro che indulgenti
nei confronti dei loro cuccioli e, senza alcuna pietà, cercano di eliminarli
nei loro primi secoli di vita in modo da impadronirsi della loro essenza
vitale, diventando così più potenti, e, al contempo, eliminare possibili futuri
rivali.
Ma se un Asceso riesce a superare questi pericolosi momenti
iniziali della sua vita, se riesce a inglobare in sé sufficiente energia
vitale, allora diventa un Dio.
Molte sono però le cose che non conosciamo. Non sappiamo, ad
esempio, quale sia la linea di demarcazione tra Ascesi e Dei; sono loro stessi
a inquadrarsi in una delle due categorie, e a noi non rimane altro che prenderne
atto. Soprattutto però, sappiamo ben poco dell’ascensione, ossia, di quel
particolare fenomeno in virtù del quale, nel momento della morte, l’anima di un
essere vivente rifiuta di essere inglobata in quella più vasta di un Dio o di
un Asceso, reclamando per sé un posto nel pantheon celeste.
Talvolta, ad ascendere sono persone singole, altre volte
gruppi di persone. Talvolta grandi condottieri, potenti maghi, re dalla grande
personalità, altre volte esseri, all’apparenza, comuni.
Spesso, comunque, l’ascensione è figlia di grandi emozioni.
L’odio, la sete di vendetta, l’ambizione ma anche l’amicizia e l’amore possono
essere delle valenti guide nella strada che porta all’immortalità.
L’ascensione di ShonKara, il grande Dio degli Y’Bron, fu, ad
esempio, frutto dell’unione delle anime di due giovani legati fra loro da un
amore impossibile. Entrambi i giovani erano degli ottimi maghi ma nessuno dei
due era straordinario, così come nessuno dei due era dotato di una personalità
stupefacente Il loro amore ebbe però la forza di sopravvivere anche alla morte
portando a la nascita di ShonKara.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che tale ascensione fu il
frutto anche, e soprattutto, di una serie incredibile di circostanze fortunate.
Ma a questo punto, considerando il ruolo determinante che ShonKara ebbe, negli
anni immediatamente successivi alla sua ascensione, dapprima nella vittoria
degli umani nella guerra contro i misteriosi Vantir, che già avevano portato
gli Y’Bron sull’orlo dell’estinzione, e poi nella rinascita degli Y’Bron
stessi, si dovrebbe aprire l’annosa questione (ma non è certo questa la sede
per farlo) relativa alla fortuna e al dubbio che sotto tale nome si celi un Dio
misterioso e superiore a tutti gli altri di nome Destino.
Dal
trattato “Ascesi e Dei”
Di Laos Braken, Sommo
Prelato della
Chiesa di Gharten.
Shon ammirò il suo ultimo tramonto, il sole che si tuffava
nell’oceano mentre il cielo s’incendiava. Rimase seduto ancora a lungo, poi,
mentre le prime stelle iniziavano a brillare nel cielo blu, si alzò e ritornò
alla Corporazione.
Era strano,
notò, come a volte tutto potesse cambiare tanto rapidamente. Solo quella
mattina si era svegliato senza presagire in alcun modo che quella sarebbe stata
una giornata che avrebbe modificato per sempre la sua vita, poi, verso
mezzogiorno, la città era stata scossa da un rombo terrificante e la terra
aveva tremato. Solo alcune ore più tardi era giunta la convocazione del
Consiglio dei Dodici.
-
Durante gli scavi per la costruzione della nuova rete
fognaria – gli aveva detto Romer, il capo della Confederazione – Una parte
della città è franata e abbiamo ragione di credere che là sotto vi sia un
labirinto degli Y’Bron. Proprio qui, sotto Kortala! Per tutti questi secoli ci
abbiamo vissuto sopra senza saperne nulla, roba da non credere! Comunque –
aveva ripreso sempre più eccitato, avvicinandosi e posandogli una mano sulla
spalla – Non è tempo di pensare al passato, anzi, dobbiamo agire subito. Presto
il Duca convocherà noi e le Incantatrici chiedendoci di esplorare il labirinto
e di portargli qualunque ricchezza esso custodisca. Da quel momento avremo le
mani legate e quindi, Shon, abbiamo deciso che all’alba di domani mattina tu
entrerai nel labirinto per recuperare qualunque cosa sia sepolta là sotto. Ed è
superfluo aggiungere che se le Incantatrici manderanno a loro volta nel
labirinto una delle loro adepte, tu dovrai eliminarla!
E
naturalmente la sorellanza avrebbe mandato Kara. Il destino, pensò amaramente,
o forse qualche Dio, si stava crudelmente divertendo alle sue spalle. In tutte
le altre nazioni gli uomini e le donne dotate di talento magico erano riuniti
in un'unica corporazione, ma non nella città stato di Kortala. Qui gli uomini
erano riuniti in una confraternita e le donne in una sorellanza. Due organizzazioni
che da secoli conducevano una guerra sotterranea ma spietata mirata
all’annientamento dei rivali.
Tutto ciò,
ovviamente, era assurdo. Cinquecento anni prima anche a Kortala vi era stata
un’unica Corporazione dei Maghi, poi qualche litigio, i cui motivi erano ormai
andati da lungo tempo dimenticati, aveva portato alla scissione e a
un’avversione reciproca assoluta che ancora perdurava grazie all’odio che
magicamente veniva instillato nella mente di ciascun mago e ciascuna
incantatrice.
Anche Shon
odiava le incantatrici, in fin dei conti nessuna di loro avrebbe avuto la
minima remora a eliminarlo se ne avesse avuto la possibilità, eppure il suo
odio era diverso da quello di tutti gli altri maghi. La sua avversione era
frutto delle circostanze ma non degli incantesimi di coercizione, incantesimi
che su di lui non avevano avuto alcun effetto. Nel momento in cui lo avevano
sottoposto al trattamento magico era, infatti, già avvenuto qualcosa di
irrimediabile: si era innamorato di un’incantatrice di nome Kara.
Era
accaduto quando erano ancora poco più che bambini, ed erano stati portati a uno
dei rari incontri tra maghi e incantatrici. Entrambi erano i più promettenti
allievi dell’ultima generazione ed erano stati portati all’incontro per
iniziare la loro istruzione nel campo della diplomazia. L’incontro con Kara era
stato fugace, un innocuo scambi di sguardi. Ma in quel momento, quella dolce
ragazzina dagli occhi verdi e dai capelli biondi gli aveva sorriso e con
quell’atto gli aveva stregato il cuore.
Negli ultimi
venti anni si erano rivisti in una manciata di occasioni e in paio si erano
addirittura parlati. Non sapeva, però, se l’incantatrice provasse qualcosa per
lui, anzi, era probabile che su di lei gli incantesimi di coercizione avessero
funzionato nella maniera attesa e che quindi la donna lo odiasse in modo
viscerale.
Tutto
questo, tuttavia, non aveva importanza. Aveva sempre saputo che il suo era un
amore impossibile e mentre gli anni passavano si era reso conto di quanto
infantile fosse il suo sentimento. Eppure, non vi avrebbe mai rinunciato.
Per quel
sentimento però, molto probabilmente, ora avrebbe pagato un caro prezzo; se
avesse incontrato nel sottosuolo colei che aveva incarnato i suoi sogni più
segreti in tutti quegli anni, infatti, sapeva che non sarebbe mai stato in
grado di ucciderla, nemmeno se la posta in gioco fosse stata la sua stessa
vita. Dunque, poteva solo sperare di precedere l’incantatrice nel compimento
della missione.
Quei
pensieri, quasi eretici, attivarono l’incantesimo di coercizione che il
Consiglio dei Dodici aveva lanciato su di lui poche ore prima.
DEVI RECUPARE IL TESORO … DEVI UCCIDERE L’INCANTATRICE … NON
PUOI FALLIRE …
Quelle parole rimbombarono per lunghi minuti nella sua mente,
privandolo di ogni percezione esterna e costringendolo ad accasciarsi al suolo.
Solo dopo che ebbe cancellato ogni dubbio dalla sua mente, l’attacco magico si
placò. Madido di sudore e ancora con il respiro affannato, infine si alzò e,
mentre la sera lasciava spazio alla notte, tornò alla Confraternita.
Entrò nel labirinto poco prima dell’alba. Il cielo era ancora
buio e rifletteva perfettamente il suo umore. I tre membri del Consiglio dei
Dodici che lo avevano accompagnato si fermarono ai margini dell’enorme conca
creata dalla frana. Gli augurarono buona fortuna e rimasero a osservarlo
mentre, con estrema cautela, si calava nella voragine, ancora piena di macerie
polverose, e si avviava verso la stretta apertura che conduceva nel sottosuolo.
Entrò titubante nel buio più assoluto. Evocò allora una fiamma magica, ma
questa si spense dopo pochi istanti. Perplesso, riprovò. La fiamma si accese ma
subito minacciò di spegnersi nuovamente e lui fu costretto a profondere nella
stessa una quantità di energia ben superiore al normale. Scuotendo la testa, riprese
il cammino.
Si fermò per la prima sosta dopo alcune ore. Fino ad allora
non aveva incontrato nulla di strano, solo una lunga serie di cunicoli
squadrati e assolutamente uguali. Tuttavia, era molto preoccupato. Aveva
continuamente l’impressione di essere osservato e spesso, in lontananza, gli
sembrava di udire degli strani rumori: porte che si aprivano, passi, cigolii,
improvvise correnti d’aria. Era forse Kara? Oppure nel labirinto c’era qualcosa
di vivo? O era solo la sua immaginazione? L’unico modo per saperlo era quello
di andare avanti, tuttavia il dover agire alla cieca lo rendeva inquieto.
Dannazione! - pensò - Ne sappiamo troppo
poco di questi maledetti labirinti.
In realtà si sapeva ben poco degli Y’Bron e non solo dei loro
labirinti. Si sapeva che erano una razza antica, potente e praticamente
immortale. Un tempo avevano dominato questo pianeta, ora erano praticamente
estinti ma un numero imprecisato di loro ancora vagava, con scopi spesso
misteriosi, in mezzo ai popoli più giovani. Tuttavia, questi sopravvissuti non
parlavano mai né del loro passato né dei loro labirinti.
Negli ultimi secoli gli uomini ne avevano scoperti, oltre a
quello sotto Kortala, ben tredici, sei nel lontano continente di Galibask, sei
nel continente di Aughmar, in cui Kortala era situata, e uno nell’isola di
Frolan. Tredici labirinti avvolti nel mistero, ma nei quali spesso erano stati
scoperti importanti tesori magici, ancor più preziosi perché impregnati della
potente magia Y’Bron, tanto diversa da quella umana. I tesori però, spesso,
erano protetti da incantesimi e guardiani. In un labirinto era stato trovato,
addirittura, un drago di fuoco ancora in vita dopo essere rimasto imprigionato
per millenni nel sottosuolo.
Per molte ore Shon continuò a vagare per gli infiniti cunicoli,
cercando di riportare alla memoria tutto ciò che aveva letto e sentito sui
labirinti e chiedendosi quanto questo potesse essere grande e augurandosi che
non fosse simile a quello trovato sotto Llardia che si estendeva su otto
livelli, ognuno dei quali, se non ricordava male, vasto decina di miglia.
Il problema
principale, naturalmente, era quello di non perdersi, cosa non facile visto che
non disponeva di una mappa e che tutti i cunicoli sembravano assolutamente
uguali. E ogni volta che arrivava a una diramazione, l’unica possibilità era
quella di scegliere a caso una direzione, sperando che fosse quella giusta. In
suo aiuto aveva solo una vernice fosforescente con cui, ogni poche centinaia di
metri, apponeva dei segni sulle pareti. Così facendo, almeno, se fosse passato
due volte dallo stesso punto se ne sarebbe accorto, evitando di ripercorrere
continuamente i suoi passi.
Vagava per il labirinto da un tempo che gli sembrava
infinito, eppure, aveva la netta impressione che all’esterno non fosse ancora
giunto il tramonto. Tuttavia era stremato. Le gambe gli dolevano e lo sforzo di
mantenere vivo il fuoco fatuo lo aveva praticamente prosciugato di ogni
energia. Decise quindi di fermarsi, sfidando gli incantesimi di coercizioni che
continuamente lo incitavano ad andare avanti e creavano in lui un fastidioso
senso di frenesia.
Prima di coricarsi sulla nuda pietra per alcune ore di
riposo, contattò, come gli era stato ordinato di fare, il capo della
Corporazione. Il collegamento, tuttavia, risultò particolarmente difficile e
riuscì a scambiare con Romer solo poche rapide informazioni. La più importante
era anche quella da lui più temuta: la sorellanza, poche ore dopo il suo
ingresso, aveva fatto entrare nel labirinto Kara. Un confronto, purtroppo, sembrava
inevitabile. Angosciato e stanco, si distese infine sul suolo e usando il suo
zaino come cuscino sprofondò in un sonno fragile e insoddisfacente.
Se non aveva sbagliato i conteggi, erano ormai ventisei
giorni che vagava per il labirinto. Ventisei giorni in certe circostanze
sembravano passare in un baleno, ma lì sotto sembravano la durata di una vita
intera e lui si sentiva come un vecchio ormai stanco che andava avanti solo per
abitudine. Ma non sapeva per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a non cedere
alla stanchezza e alla solitudine. Per di più, da ventitré giorni era tagliato
completamente fuori dal mondo esterno; i collegamenti magici con Romer,
infatti, dopo il terzo giorno erano risultati impossibili. Fino ad allora,
comunque, non aveva scorto traccia di Kara, se non per qualche segno sulle
pareti che la donna doveva aver lasciato con il suo stesso intento. Non sapeva,
tuttavia, che significato attribuire a tali segni. Forse l’incantatrice era
ormai di molto davanti a lui o forse stavano procedendo di pari passo, sempre
vicini l’uno all’altra. In ogni caso, a ogni svolta, si aspettava di vederla e
non sapeva se temere la prospettiva o augurarsela.
L’esplorazione del
labirinto, comunque, si stava rivelando un’impresa più ardua del previsto. Innanzitutto,
la magia sembrava in qualche modo ostacolata. Ogni incantesimo, anche il più
banale, diventava sempre più difficile. Persino tenere accesa la luce magica,
spesso, gli risultava impossibile e anche lo zaino magico che sarebbe dovuto
essere sempre colmo di generi alimentari, il più delle volte, ormai, risultava
tristemente vuoto.
I cunicoli, poi, erano ricolmi di trappole, sia magiche che
meccaniche: pavimenti che scomparivano, botole che si aprivano sotto i piedi,
buchi nelle pareti da cui fuoriuscivano palle di fuoco, frecce e lance. A ogni
passo c’era da attendersi di tutto. E se le trappole magiche, il più delle
volte, erano individuabili in virtù dell’alone magico che provocano, per quelle
meccaniche non vi era altro che prestare attenzione a ogni minimo rumore o
movimento. Ma quella continua tensione cominciava a giocare dei brutti scherzi
alla sua immaginazione e molte volte si era buttato per terra, aspettandosi di
dover evitare una freccia o una lancia, senza che nulla accadesse.
Finalmente era giunto all’ottavo livello, quello che in tutti
gli altri labirinti conosciuti, con l’unica eccezione del labirinto di Agherith
che era costituito da 13 livelli, era il livello finale.
Era ormai arrivato, secondo le sue stime, al trentasettesimo
giorno nel sottosuolo e, al solo pensiero di quanti altri ce ne sarebbero
voluti per esplorare l’ultimo livello e poi tornare in superficie, veniva preso
dallo sconforto più assoluto.
Per ore vagò per i cunicoli di quel livello, senza trovare né
diramazioni né aperture di alcun tipo. A un certo punto, però, capì che
qualcosa non andava. Sulle pareti vi erano, infatti, i segni da lui lasciati in
precedenza. Evidentemente, doveva aver perso qualche diramazione ed essere
tornato al punto di partenza.
Perplesso, si rimise in cammino, cercando di porre la massima
attenzione a ogni possibile deviazione. Non ne trovò, e alla fine si ritrovò di
nuovo al punto da cui era partito.
Stancò e disperato si sedette sul pavimento.
Da qualche parte doveva esserci una porta magica ben
nascosta! Era l’unica possibilità, salvo pensare che quell’enorme labirinto
altro non fosse che un colossale scherzo da parte degli Y’Bron. Tuttavia, non
voleva e non poteva prendere in considerazione una simile ipotesi.
Dopo alcune ore di riposo, riprese dunque l’esplorazione.
Procedeva con la massima cautela cercando di percepire ogni minimo segnale
della magia Y’Bron e percotendo, ogni pochi passi, le pareti alla ricerca di un
qualche passaggio segreto.
Ci vollero ore di estenuanti ricerche per riuscire, infine, a
percepire un tratto del labirinto da cui promanava un debolissimo segnale
magico, praticamente impossibile da percepire per chiunque non fosse dotato di
un’enorme sensibilità magica.
Il segnale era comunque camuffato, e non era facile individuare
con precisione da dove provenisse. Si sedette allora per terra, cercando di
entrare in un profondo stato di meditazione, svuotando la mente da ogni
pensiero e lasciandola libera di assorbire tutte le sensazioni provenienti dal
mondo circostante. Dopo parecchio tempo, aveva individuato, sul pavimento,
quattro pietre da cui proveniva il debole segnale magico.
Una dopo l’altra, le toccò. Immediatamente, una larga sezione
del pavimento iniziò a fluttuare verso il basso fino ad arrivare a un livello
inferiore: il vero ottavo e ultimo livello del labirinto.
Shon, euforico per quell’ultimo trionfo, iniziò subito
l’esplorazione dei nuovi cunicoli, girandosi solo un attimo a osservare la
sezione di pavimento che lentamente riprendeva a salire fino a tornare alla
posizione originaria.
Stava esplorando l’ultimo livello da quasi tre giorni quando
all’improvviso il silenzio fu rotto da un grido di dolore. Shon, rimase
interdetto, dubbioso su cosa fare. Il grido lentamente si tramutò in un rantolo
di dolore, sempre più debole. La voce sembrava quella di donna e Shon si rese
conto che doveva trattarsi di Kara. Come un pazzo, incurante dei pericoli,
prese allora a correre in direzione del lamento.
Sbucando da un cunicolo, si ritrovò di fronte a un enorme
essere, vagamente umanoide, armato di una grossa lancia da cui penzolava,
trafitta all’addome, la donna che da tanti anni amava.
Senza riflettere, scaricò contro il nemico tutto il suo
potere in un raggio di pura energia. Si trattava di una strategia disperata, se
l’attacco non avesse avuto fortuna, non avrebbe avuto più forze per sferrarne
un altro. Il raggio, tuttavia, colpì il mostro in mezzo agli occhi, e questo
stramazzò al suolo morto.
Shon corse allora verso il corpo di Kara, accasciato per
terra. La donna era ancora cosciente e rantolava di dolore. Il giovane mago,
per un attimo, non poté distogliere gli occhi dalla lancia, larga almeno due
pollici, che aveva trafitto il ventre dell’incantatrice per poi fuoriuscire
dalla schiena per almeno un paio di palmi.
Quasi inconsapevolmente, si inginocchiò allora vicino al
corpo sofferente dell’amata. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma la sua mente
sembrava paralizzata, incapace di formulare pensieri o parole razionali. Non
riuscendo a fare altro, avvicinò allora una mano al volto dell’amata e iniziò
delicatamente ad accarezzarle i capelli.
L’incantatrice, come accorgendosi solo allora della sua
presenza, alzò la testa e per alcuni istanti rimase a guardarlo.
-
E’ sbucato all’improvviso – disse con voce tremante,
come per scusarsi – Probabilmente per magia. Non ho fatto nemmeno in tempo ad
accorgermene che già mi aveva colpita.
-
Sono contenta – riprese sempre più debole – Che non ci
dobbiamo battere tra noi e che tu sia al mio fianco in questi ultimi istanti.
-
Non devi dire così, Kara – replicò il mago, ritrovando
finalmente le parole – Ci penserò io a te, non ti lascerò morire.
Ma mentre diceva quelle parole sapeva di stare mentendo, lui
non era un guaritore e dubitava che persino un prete di Laulhar sarebbe
riuscito a guarire una ferita come quella di Kara.
-
Adesso sta ferma e stringi i denti – riprese deciso,
cancellando dalla sua mente ogni titubanza – Devo toglierti la lancia. Sarà
molto doloroso, ma non posso fare nulla fino a quando non sarà stata rimossa.
-
No, Shon. E’ inutile. Non sprecare questi unici
istanti che abbiamo da passare insieme. Forse lo troverai assurdo, forse nel
tuo cuore non provi per me altro che odio o ribrezzo, ma devi sapere che io ti
amo. Anche se ci siamo visti poche volte, anche se non ci siamo mai veramente
parlati, sin dalla prima volta che ti ho visto ti ho amato.
-
Anch’io ti amo, Kara – replicò lui con le lacrime agli
occhi, sconvolto da quella improvvisa rivelazione. Se solo avesse avuto il
coraggio di credere ai propri sentimenti, se solo avesse avuto il coraggio di
dichiararsi all’incantatrice, quante cose avrebbero potuto fare. A Kortala il
loro amore era impossibile, ma dannazione, c’era un mondo intero intorno a loro
in cui avrebbero potuto essere felici. E ora era troppo tardi. No, non poteva essere.
Non poteva finire così!
-
Non ti lascerò morire, Kara – riprese quindi – Non
ora. Lasciami provare, ti prego, riuscirò a trovare il modo – E così dicendo si
alzò e prese la lancia con le due mani.
-
Sii forte – ripeté mentre Kara mugolava dal dolore. Con
un colpo deciso estrasse quindi l’arma.
L’incantatrice lanciò un urlo agghiacciante per poi svenire.
Il mago la prese allora tra le braccia e, timoroso che altri nemici potessero
essere in agguato, la portò in una stanza che si apriva pochi metri più avanti.
Lì poteva solo sperare nell’intervento di un qualche Dio o di un qualche Asceso
misericordioso.
La stanza, subito dopo il loro ingresso, si chiuse
ermeticamente grazie ad una lastra di marmo che scivolò dal soffitto. Per un
attimo, Shon temette di essere caduto in una trappola, quando però vide che non
accadeva nulla si tranquillizzò e andò a posare il corpo della donna su un
letto di pietra che era collocato al centro della stanza.
Mentre cercava di porre ordine alle mille idee che aveva in
testa, si concesse un attimo per osservare la stanza in cui era entrato e che
era la più strana che avesse incontrato in tutto il labirinto. Al centro vi era
un lettino di marmo scuro, su cui adesso era posato il corpo di Kara, poco
oltre vi era una specie di monolito, alto circa due metri, anch’esso in marmo e
con al centro un’enorme pietra, simile a un rubino, dalla quale proveniva una
debole luminescenza rossastra. Ai quattro angoli della stanza vi erano poi
delle pietre verdastre che illuminavano il locale.
Lieto di poter disattivare il fuoco fatuo che era stato il
suo unico compagno in tutti quei giorni, si concentrò sulla sua amata
incantatrice.
La ferita all’addome, constatò ancora una volta, era enorme e
da essa sgorgava un copioso fiume di sangue. Cercando di non farsi prendere dal
panico, richiamò alla mente quel poco che sapeva sugli incantesimi di
guarigione e, dopo aver toccato il collo di Kara per verificare che il cuore
battesse ancora, si mise all’opera.
Estese allora tutte le sue percezioni nel corpo della donna
cercando di stimolare il processo di guarigione. Nuovamente, tuttavia, si rese
conto che sarebbe stato tutto inutile. La ferita aveva danneggiato troppi
tessuti e organi interni perché lui potesse curarla. Pur disperato, comunque,
non si diede per vinto, e incanalò tutte le sue residue energie nel corpo di
Kara.
La reazione fu sorprendente, con velocità quasi miracolosa, i
tessuti iniziarono a ripararsi, i vasi sanguigni a chiudersi, il cuore sembrò
riprendere vigore. Poi, di colpo, tutto si interruppe e in pochi istanti la
donna spirò. Sgomento, Shon si rese conto di aver agito con troppo impeto e
aver richiesto troppo dal debole corpo della donna.
Impietrito, rimase quindi a guardare il momento del trapasso.
Già tante volte, purtroppo, grazie alla sua vista magica, aveva assistito a
quel fenomeno tanto misterioso per le persone normali. L’essenza vitale di una
persona che si staccava dal corpo e rimaneva in attesa, fluttuante sul
cadavere, fino a quando compariva sul luogo un Dio o un Asceso che la inglobava
in sé.
Stavolta, però, non accadde nulla di simile. L’essenza di
Kara fuoriuscì dal suo corpo ma nessun essere supremo si fece avanti a
reclamarla. Dal cuore del monolito, tuttavia, provenne un rumore, simile a un
debole ronzio, dopodiché un raggio di luce catturò l’anima di Kara e la
trascinò nella grossa pietra rossa che subito prese a brillare con maggior
vigore.
Shon, in lacrime, crollò allora al suolo disperato, non solo
per la morte di Kara ma anche per il fatto che la sua anima era andata persa.
Ora, per loro, non vi era più alcuna speranza, neppure quella, assai remota, di
potersi, un giorno riunire, nell’appartenenza al medesimo Dio.
Continuò a piangere a lungo, fino a quando, senza
accorgersene, sprofondò in un sonno simile all’oblio.
Si svegliò pervaso da un angosciante frenesia, provocata da
un ricordo improvvisamente tornato alla luce. Corse alla zaino e rovistando
furiosamente tirò fuori un libro che aveva portato con sé e che parlava dei
labirinti Y’Bron. Freneticamente ne sfogliò le pagine fino a trovare quello che
cercava. In un paragrafo si parlava di monoliti, trovati in altri labirinti,
simili a quello che aveva catturato l’essenza di Kara. Rilesse più volte il
passaggio, poi, mentre nel suo cuore si faceva largo un’assurda speranza,
figlia della disperazione, si ritrasse in profonda meditazione.
Secondo alcuni studiosi, peraltro non particolarmente
accreditati, lo scopo principale dei labirinti Y’Bron era di facilitare la
nascita di ascesi e divinità. Sembrava, infatti, che l’essenza vitale degli
Y’Bron, pur estremamente potente in vita, fosse incapace di realizzare in modo
naturale quel misterioso fenomeno in virtù del quale alcuni esseri riuscivano,
dopo la morte a mantenere la propria consapevolezza, la propria volontà e le
proprie memorie, dando così vita a un Asceso. I labirinti, sarebbero dunque
stati degli enormi involucri, refrattari a ogni tipo di magia diversa da quella
Y’Bron, aventi un duplice scopo: tenere alla larga tutti gli essere supremi
delle altre razze che normalmente si lanciavano come sciacalli sulle essenze
vitali degli Y’Bron deceduti e custodire, al loro interno, degli artefatti
magici in grado di catturare tali essenze, di conservarle e fonderle,
provocando così la nascita di divinità Y’Bron.
Era una teoria assurda, pensò Shon. Eppure, dopo quello a cui
aveva assistito, non poteva che crederci.
Non gli rimaneva da fare altro, dunque, che percorrere
l’assurda strada che gli si parava dinnanzi. Era una follia, ma in fin dei
conti, una follia che compiva a cuor leggero.
Spostando il cadavere delle sua amata, si distese quindi a
sua volta sul lettino. L’incantesimo di coercizione che fino ad allora aveva
tenuto a bada, percependo le sue intenzioni, si attivò con violenza inaudita.
Ma a Shon, nello stato d’animo in cui si trovava, servì solo un piccolo sforzo
per bandire per sempre la volontà dei dodici. E quell’episodio, anziché
dissuaderlo, lo rafforzò nel suo proposito. Aveva vissuto da schiavo per troppo
tempo!
Tornando in superficie con la sua scoperta, rifletté, avrebbe
ricevuto grandi onori. Ma di quegli onori non gli importava assolutamente nulla
e anzi, riteneva indispensabile che la sua Corporazione non mettesse mai le
mani su uno strumento tanto potente quale il monolito degli Y’Bron.
-
Kara, sto arrivando! – bisbigliò infine sottovoce,
riprendendosi da quegli inutili pensieri. Sollevò quindi un coltello e, con un
gesto deciso, si tagliò le vene.
E quasi senza accorgersene, la sua anima si ritrovò al di
fuori di quell’inutile involucro di carne che per tanti anni l’aveva custodita.
Provò sensazioni strane ed esilaranti. Un senso di libertà
assoluta e una più chiara percezione della realtà circostante. Presto, però,
tutto divenne confuso e iniziò a provare un profondo senso di stordimento. La
sua vita passata gli appariva lontana, i suoi ricordi offuscati, il senso di sé
sembrava svanire.
Poi, la sua essenza vitale fu reclamata dall’oracolo.
Senza sforzo, la sua anima si fuse con quella di Kara e con
quella di innumerevoli Y’Bron che da migliaia di anni erano prigionieri
dell’artefatto. La loro essenza era ancora potente, ma ogni ricordo, ogni
consapevolezza, era da lungo tempo svanita. La loro, era energia vitale allo
stato puro. Una linfa straordinaria per le anime di Shon e Kara, ormai
indissolubilmente legate. Una linfa vitale di cui i due si cibarono per
solidificare i loro ricordi, i loro valori, i loro sentimenti e tutto quanto
minacciava di sparire in breve tempo senza il sostegno di un corpo di carne.
L’Asceso nato dall’unione delle anime del mago e
dell’incantatrice provò allora un senso di gioia assoluta mentre assaporava la
sua completezza. In quella stanza si era compiuto il destino e due esseri nati
per stare insieme finalmente si erano incontrati e uniti, e niente, ora,
avrebbe potuto dividerli.
All’interno dell’oracolo ogni percezione del tempo era
annullata e l’Asceso non sapeva da quanto tempo si trovava all’interno della
pietra, intento a godere di mille sensazioni estatiche. Forse un secondo o
forse mille anni. Alla fine, decise comunque che era tempo di uscire. Si chiese
come fare, timoroso che l’oracolo potesse essere una barriera impenetrabile, ma
poi si rese conto che per essere libero bastava volerlo.
Così l’Asceso si avventurò nel mondo esterno, alla ricerca,
in quel nuovo stato dell’esistenza, di un suo ruolo.
E la ricerca ebbe presto felice conclusione.